PRP: Panacea Ricca di Piastrine? No, però…

Che cos’è realmente il PRP? Perché funziona e perché viene usato così spesso? Quali possono essere i rischi?

Per rispondere a queste domande ci siamo rivolti alla Dr.ssa Laura Mazzucco, Biologa Responsabile del Laboratorio di Medicina Trasfusionale dell’Ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria, tra i maggiori esperti in Italia nel campo degli emocomponenti a uso non trasfusionale e della medicina rigenerativa. Da sempre appassionata di piastrine, è stata una delle prime ricercatrici ad utilizzare, nei suoi esperimenti, il lisato piastrinico, ovvero il “succo delle piastrine”, per stimolare le cellule a crescere nelle piastre di coltura.

Il PRP è una terapia biologica molto diffusa che vanta risultati ben consolidati nella letteratura scientifica. Come suggerisce l’acronimo, non è altro che un plasma ricco di piastrine, ottenuto a partire da sangue autologo (NdR il donatore coincide con il ricevente) attraverso la concentrazione delle piastrine. Il razionale sta nel portare al paziente un concerto di proprie molecole per favore il ritorno all’equilibrio in un tessuto sofferente a causa di un trauma, come ad esempio una lesione muscolo-tendinea, o di un processo degenerativo, come nel caso dell’artrosi. Ma come funziona?

“Il PRP può dare del beneficio perché quelli sono tessuti fibrotici in cui non arrivano più queste molecole. L’apporto totale di un mondo di molecole che mancano in quelle zone -dove non arriva più innervazione, non arriva più microcircolo, non arriva più circolo a volte- porta a ricreare terreno fertile per il re-homing (NdR richiamo) delle cellule. A volte mi dicono “si ottiene lo stesso effetto anche senza PRP” – si è vero, è molto probabile, ma in un tempo più lungo. Il PRP agisce in un periodo compreso nei primi mesi. Se controlli il risultato a un anno, può sembrare uguale, ma l’effetto del PRP è nella prima parte.”

È importante, sottolinea la Dott.ssa Mazzucco, il ruolo del clinico del definire la diagnosi, il momento più importante nel percorso terapeutico del paziente. “Io sono dell’idea che l’approccio al PRP sia molto positivo, ma deve essere un’alternativa ad un’altra terapia, non deve esserci l’unicità della terapia. Noi abbiamo creato dei percorsi. Alcuni pazienti vengono di primo screening, ma quasi tutti sono pazienti che hanno fatto cicli di terapie convenzionali e poi dopo provano anche il PRP. Un paziente che può avere un approccio primario con il PRP è il paziente oculistico, perché alcune patologie oculistiche rispondono molto bene a questi trattamenti; d’altronde sono cinquant’anni che si usa l’autosiero.”

Alcuni mettono in discussione l’utilità del PRP, perché è usato similarmente in differenti patologie, ma questo, secondo la biologa, non è un motivo valido per screditarlo. “Questo prodotto è nato come storia per essere usato nei casi difficili, improbabili, sulle ulcere praticamente difficilissime da curare, sulle ulcere diabetiche pre-amputazioni – e poi si è chiesto dei miracoli, ma non è un prodotto da miracolo. È un prodotto che può essere inserito in percorsi clinici come coadiuvante. Il problema del PRP è stato nascere come panacea, ma panacea non è.Io ci credo molto nella multidisciplinarietà del PRP. Nei nostri tessuti, ci sono cellule che rispondono di più e cellule che rispondono meno, però è effettivamente un prodotto adatto a tutti i comparti.”

Sul mercato sono presenti molte tecnologie differenti ed è bene distinguerle in base a criteri di qualità, per altro stabiliti dalla legge (DM 2 novembre 2015, Allegato X). “Le differenze (NdR tra le tecnologie) sono quelle che abbiamo già enunciato tutti. Come prima cosa, la quantità di piastrine che concentrano, su cui ci siamo focalizzati per dare una standardizzazione e per dare un riferimento di prodotto. Non è legato all’efficacia biologica, ma è uno standard. A livello di Centro Nazionale Sangue doveva essere redatto un punto di riferimento per differenziare i vari PRP. Quando è stato definito il numero di piastrine, non si pensava che poi uscissero tante varietà di prodotti. Allora si chiamava con tanti modi diversi qualcosa che era sempre lo stesso: un plasma ricco di piastrine. Da lì, l’aggiunta di una cosa e l’altra, un po’ come in cucina: un pizzico di sale, un pizzico di basilico (ride)… da lì sono venuti fuori tutti questi prodotti poco differenziati nella finalità clinica. C’è poca dimostrazione che un concentrato piastrinico sia meglio di un PRF (Fibrina ricca in piastrine) e un leuco-PRP (Plasma ricco di piastrine e leucociti).”

Riguardo il futuro del PRP, è possibile che negli anni a seguire assisteremo ad un’evoluzione di questa terapia e all’uscita nel mercato di PRP di “seconda generazione”. “Io ci penso molto a questa cosa qui. Sicuramente la seconda generazione del PRP sarà industriale, anche se temo che non ci sia nessuna volontà a farlo.

Io penso che l’industrializzazione del PRP possa essere legata alla raccolta omologa e quindi all’ottenimento del prodotto a partire da derivati e avanzi trasfusionali. C’è anche la possibilità di liofilizzare il PRP, io per esempio ho un liofilizzato dal 2003 quindi ci credo tantissimo.

La pietra miliare del PRP sta nel fatto che attualmente non sono stati descritti effetti collaterali negativi. Questo mondo di fattori nel plasma e nelle piastrine probabilmente si autobilanciano. L’alterazione di alcune concentrazioni e la modificazione industriale richiederà studi importanti. Non dico che non si possa fare, ma sarà difficile renderlo così universale come lo è adesso. Probabilmente, attualmente, non si è visto ancora un mercato così interessante.”

 

Omar Sabry